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In essa vengono addotti due motivi per spiegare il titolo conferito: uno di carattere letterario, secondo cui col nome di commedia era usanza definire un genere letterario che, da un inizio difficoltoso per il protagonista, si conclude con un lieto fine, e uno stilistico. Infatti lo stile nonostante sia sublime, tratta anche tematiche turpi tipiche di uno stile umile, secondo l'ottica cristiana di accogliere anche gli aspetti più bassi del reale, pur di raggiungere il cuore di tutta l'umanità. Nel poema infatti si ritrovano entrambi questi aspetti: dalla "selva oscura", allegoria dello smarrimento del poeta, si passa alla redenzione finale, alla visione di Dio nel Paradiso; e in secondo luogo, i versi sono scritti in volgare e non in latino che, sebbene esistesse già una ricca tradizione letteraria in lingua del sì, continuava ad essere considerata la lingua per eccellenza della cultura.
L'aggettivo "divina", riferito alla Commedia per via dei temi riguardanti il divino, fu usato per la prima volta da Giovanni Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante, scritto circa quarant'anni dopo il periodo in cui si pensa sia stato terminato il poema dantesco. La locuzione Divina Commedia, però, divenne comune solo dalla metà del Cinquecento in poi, da quando Ludovico Dolce, nella sua edizione del 1555, stampata a Venezia da Gabriel Giolito de' Ferrari, riprese nel titolo l'attributo datole dal Boccaccio.